Le incursioni di Pippo
Il falò con i quadri del duce
Racconto di A.P. classe 1933
di Scaglioli Greta
Noi eravamo spaventati dalla guerra non solo perché abbiamo subito, ma eravamo spaventati anche perché ne parlavano sempre, della guerra, in casa, perché avevamo due zii che erano al fronte. Mio zio, il primo, era nei bersaglieri, in Africa; andavano a fare il campo contro il nemico.
Lui si è salvato per un miracolo: aveva le mitragliette, era in un buco, è arrivata una mitragliata di pallottole, aveva gli amici intorno che gli sono caduti tutti morti sopra, e s’è salvato: così si è portato a casa la pelle dopo tanti anni. Allora la mia famiglia, mio padre e mia madre, dicevano sempre: “Ah, non ha scritto, ah, non scrive più”. Erano tutte chiacchiere che facevano, erano voci di popolo, perché allora non c’era né televisione né niente: si parlava così, tra di loro, e noi che eravamo ragazzi piccoli ascoltavamo quello che dicevano ed era tutta paura.
Quando sono tornati a casa ci dicevano che i prigionieri in Africa han patito tanta sete, tanta sete. Quando arrivavano i camion militari, andavano sotto a prendere l’acqua del radiatore. Prendevano l’acqua e bevevano quella lì dalla gran sete.
Poi han portato via mio padre e dopo, siccome era rimasta a casa solo mia madre con i figli, dicevano che quelli che avevano sei figli non andavano in Germania, non li mandavano via, li tenevano lì a Carpi e forse li mandavano a casa.
Il nostro padrone, che era il professore, ha fatto tutti gli incartamenti, poi lui e mia madre sono andati fino a Carpi a portare i documenti, e loro gli hanno detto: “Tre giorni e viene a casa”. Passa il primo giorno, non si vede; secondo giorno: “Papà non viene”, e mia madre: “Taci, vedrai che arriverà, vedrai, han detto tre giorni”; il terzo giorno, sotto sera, è capitato a casa il papà. Lì io e i miei fratelli siamo stati davvero contenti.
Andavamo a scuola a Montalto. Ci sono andata fin quasi gli ultimi anni della guerra. Mi ricordo che, quando hanno ucciso il duce, son venuti su da Vezzano e han tirato giù tutti i quadri che lo ritraevano che c’erano nella scuola, poi hanno buttato tutto in un mucchio e hanno fatto un falò con i quadri.
Dopo la scuola ci facevano, il sabato pomeriggio, le chiamavano “Le piccole italiane”. Noi bambine eravamo vestite con una giacchina bianca e i bambini avevano un berrettino in testa da balilla, ai maschi facevano lavorare il legno e alle bambine insegnavano il ricamo.
Mi ricordo che un giorno, quando prendevano su gli anelli alle donne, son passati a casa mia e li volevano tutti. Mia mamma non glielo voleva dare e mio padre: “Daglielo, daglielo, perché altrimenti ci fanno del male”. Erano venuti su i capi degli uffici di Vezzano, allora mia madre se l’è tolto e l’ha buttato con tanta forza: avevamo dei pavimenti con delle piastre grandissime, allora c’erano delle righe, delle buche nel pavimento, e l’anello era andato a finire proprio dentro una buca, ma son stati lì a cercarlo finché non l’han trovato.