Le incursioni di Pippo
Le divise bianche
Racconto di D. G. di classe 1934
di Diletta Corsi
Io il 25 aprile del 1945 avevo undici anni e vivevo sugli Appennini modenesi. Fino ad un mese e mezzo prima della fine della guerra io e la mia famiglia condividevamo la casa con i tedeschi: occupavano l’appartamento di mio zio, prigioniero in Germania in un campo di concentramento. Era padre di dieci figli. Fu preso dai tedeschi, in Albania dove gli italiani combattevano, e poi portato in Germania in un campo di concentramento. Riuscì a sopravvivere solo per il fatto che non fumava. Lavorava in una fabbrica tedesca e ogni giorno i tedeschi davano ai lavoratori 5 sigarette. Lui aveva conosciuto una signora che aveva la casa adiacente al campo con la quale barattava: teneva da parte tutte le sigarette che gli venivano date e ogni sabato le portava 30 sigarette in cambio di una pagnotta. Ritornava nel suo ripostiglio, dove dormiva, e mangiava la pagnotta. Lui tornò a casa che pesava 27 kili.
Ricordo che i tedeschi, durante l’inverno, si vestivano di bianco per mimetizzarsi con la neve, per poi dare l’assalto a Morano, dove erano sistemati i partigiani. Una volta però, un soldato tedesco rimase ferito. Lo portarono a casa nostra sopra ad una scala che fungeva da barella. Morì poco dopo e noi, ragazzini molto curiosi, andammo lì e alzammo il lenzuolo per vederlo in faccia.
Verso la fine, quando i tedeschi sapevano ormai della ritirata verso il Po, c’era un polacco (arruolato coi tedeschi) che chiedeva a mio nonno il modo per andare dai partigiani e diceva :” Io ho una famiglia a casa che mi aspetta, non voglio morire”. Riusciva a comunicare con mio nonno perché parlava bene il francese, e essendo stato un emigrante in Francia per 17-18 anni, anche mio nonno lo parlava bene. Questo soldato continuava a chiedere a mio nonno se era possibile prendere contatto coi partigiani; mio nonno, allora, gli indicò la zona in cima alla collina, in cui c’era il comando partigiano e in cui si potevano passare le informazioni. Lo sentivo piangere, perché doveva attraversare il Po, e sapevano tutti bene che stava accadendo una tragedia, in cui infatti morirono migliaia di soldati, morirono affogati.
Avevo altri due zii scappati dai militari e, ovviamente, nessuno sapeva dove fossero. Una sera uno di loro tornò a casa mentre c’erano anche i tedeschi; fortunatamente riuscimmo a nasconderlo in un armadio che sembrava una credenza, ma in realtà era una specie di armadio a doppio fondo. Se lo avessero scoperto avrebbero bruciato tutta la casa: la vendetta più usata dai tedeschi era quella di bruciare tutto quello che era a contatto coi partigiani. La stessa notte, mentre i tedeschi erano nelle loro stanze, lo facemmo scappare, il meno rumorosamente possibile.
Ricordo che un ragazzino della mia età rimase ucciso da una bomba per strada. Era il febbraio del 1945, appena prima che finisse la guerra. Si trovavano per strada queste bombe: erano come delle scatole chiuse (con dentro la bomba) che si aprivano. Se si apriva entro un certo lasso di tempo, scoppiava, altrimenti rimaneva inesplosa. Quando andammo al funerale del ragazzo, trovammo in mezzo alla neve queste bombe inesplose, il che voleva dire che non le avevano ancora tolte.