Le incursioni di Pippo
Lo scoppio di una bomba
Racconto di C.T. classe 1934
di Aurora Tondelli
Del 25 aprile mi ricordo l’arrivo della colonna dei carri armati americani e i partigiani che sono passati vicino alla nostra casa a Rio Saliceto. Siamo stati un paio d’ore fuori, in cortile, a guardare tutta la colonna degli americani che passavano, poi siamo rientrati in casa. Quel giorno per noi è stato il giorno della liberazione perché era finalmente finita la guerra e la preoccupazione di morire in battaglia (per i soldati) o sotto i numerosi bombardamenti (per i bambini,le donne e gli anziani).
La sera prima della liberazione i tedeschi sono passati praticamente sotto casa nostra per circa un’ora e noi stavamo il più nascosti possibile per non farci vedere e perché avevamo paura che avrebbero tirato una bomba su di noi e sulla nostra casa. Anche se c’era molto rumore, noi bambini, che eravamo molto piccoli, ci siamo addormentati poco dopo perché eravamo molto stanchi. La mattina seguente siamo però stati svegliati dalle urla dei nostri genitori che annunciavano che la guerra era finita e ci dicevano di uscire e andare a vedere.
Prima mi ricordo dei bombardamenti e dell’apparecchio Pippo che passava sopra le nostre case. Poi mi ricordo che le madri, compresa la mia: mandavano i propri figli ad avvertire l’altra gente vicina dell’arrivo dei tedeschi.
Mi ricordo che i tedeschi occuparono la nostra scuola dall’8 settembre 1943 (firma dell’armistizio) fino al 1944.
Mia madre piangeva molte volte perché non riusciva a darci tutto quello che avrebbe voluto darci, ma eravamo in 6 e molto poveri. Di scarpe ne avevamo solamente un paio per uno che ci sono durate tre anni circa. In inverno uscivamo raramente perché le nostre scarpe non tenevano affatto caldo e si riempivano velocemente di neve.
Mi ricordo di una volta che sono andato insieme a mio fratello maggiore e mio padre a togliere un albero secco vicino all’argine del fiume e dall’altra parte c’era il campo pieno di partigiani armati che si erano fermati a riposarsi. Quella fu la prima volta che vidi un partigiano. Il giorno dopo io e mio fratello tornammo lì per vedere se c’erano ancora, ma se ne erano già andati via.
Come giochi avevamo solamente una palla fatta di stracci legati con del fil di ferro con cui giocavamo a calcio ed una bicicletta, che però ci era stata portata via dai tedeschi.
Alla mia vicina di casa, che aveva un figlio prigioniero di guerra in Australia, dopo lo scoppio di una bomba le si erano conficcate due schegge, una nella spalla e una nel braccio. Lei subito non voleva andare all’ospedale per una sciocchezza del genere, come l’aveva definita lei, ma dopo qualche giorno decise di andarci. I medici la vollero tenere dentro almeno quella notte, ma i tedeschi lanciarono una bomba proprio nell’ala dell’ospedale dove si trova lei, che si affacciava sulle Reggiane e sulla ferrovia, morì così a soli quarant’anni. Ogni volta che vedo suo figlio, che ha circa la mia età ora, non fa altro che ripetere quanto sia ingiusta la guerra perché lui, che era stato deportato in Australia, è sopravvissuto, mentre sua madre che era rimasta a casa è stata uccisa da un bombardamento.