Le incursioni di Pippo
Il sale di Cervia
Racconto di B. A. classe 1934
di Mariachiara Benevelli
Nel dicembre del ’39 abbiamo raggiunto in Africa mio padre, che era lì dal ’37. Eravamo io, di 5 anni compiuti, mia sorella di 4, e mia madre; siamo partite da Genova. Ci ha accompagnato una mia zia che ci aveva regalato una borsina rossa, che me la ricordo ancora, e siamo andati in Somalia con un piroscafo che ci ha messo un mese.
Quando siamo sbarcati c’era mio padre a prenderci , siamo andati a Merca, vicino a Mogadiscio, mio padre invece lavorava a Vittorio d’Africa che era a 12 km.
Lui prima lavorava all’oleificio di Reggio, dove trasformavano le vinacce in olio, là in Africa, invece, lavoravano le arachidi. Avevano un bell’edificio, una bella fabbrica; mio padre, che era molto bravo, aveva costruito i mulini per schiacciare le arachidi. Al mattino partiva con il camion, partiva con dei ragazzi negri, perché allora la manodopera era fatta da questi ragazzi, partiva con il camion con questi ragazzi e andava a Vittorio d’Africa. Tornavano a mezzogiorno o alla sera, adesso non ricordo, e nel 41, quando è scoppiata la guerra, siamo ritornati prima perché io non godevo di buona salute, e poi perché dopo ci avrebbero rimpatriati. Siamo tornate con un bananiero, che era un mercantile. Nel canale di Suez ci siamo fermati perché avevano avvistato le mine, c’erano già le mine, se andavamo incontro a una mina saltavamo, ci siamo fermati e abbiamo aspettato che sminassero e poi siamo passate e stavolta siamo sbarcati a Venezia.
Mio padre no, era rimasto prigioniero in Africa degli Inglesi. Perché quando sono sbarcati gli inglesi hanno bombardato l’edificio, bruciato tutta la documentazione, fatto prigioniere queste persone come in un campo di concentramento. Siccome mio padre fumava molto, scrisse : “ Ho smesso di fumare per non dare da guadagnare agli inglesi”. Avevamo notizie di mio padre in Africa attraverso la Croce Rossa. Gli inglesi in Africa non erano visti bene, al contrario degli italiani, con cui i negri avevano un senso di fratellanza, di comunione. Anche se quando noi andavamo al cinema davanti c’erano i neri e dietro noi, e a scuola eravamo divisi, io e mia sorella giocavamo con i figli del nostro “boy”, che noi definiamo maggiordomo-tuttofare, che aveva due bimbi e li portava a casa nostra quando veniva a lavorare.
Durante le estati di guerra, terminata la scuola, andavamo a Baiso e qualche volta, di sera, nonostante il coprifuoco, andavamo a prendere un sacchetto di grano da un contadino che ce lo dava. Il sacchetto di grano lo tenevamo qui, sul petto, e quando intravedevamo avvicinarsi la ronda, ci gettavamo nel prato sopra a questo sacchetto, poi, passati loro, riprendevamo il cammino: perché si andava lontano a prendere quei sacchetti di grano.
Quando tornavamo a casa, lì alla Rosta, c’era al Buco del Signore un mulino, e il mugnaio era amico di mia nonna, ci macinava il grano e ci dava la farina . Mia nonna faceva il pane , andavamo poi al ponte di San Pellegrino dove c’era un cugino che aveva un forno, per cuocere il pane.
Tutto questo di nascosto. Siccome sul ponte c’erano sempre i militi a controllare, mandavano me con la biciclettina piccola e una borsa con le tere di pane da cuocere, perché era difficile che fermassero una bambina. lo andavo a portarlo e poi lo andavo a riprendere.
Il latte lo andavamo a prendere alla Pieve, in bicicletta, al mattino, prima dell’orario di scuola, perché una mia zia contadina lo mungeva e ci dava il latte.
Durante la guerra, da Reggio, per un periodo di tempo, eravamo sfollati a Rivaltella. Ci piaceva molto perché c’era un campo immenso, scendendo giù da un sentiero acciottolato andavamo in riva al fiume Crostolo, dove non c’era l’acqua alta. Qui ci lavavamo i piedi, lavavamo le nostre cose, facevamo i nostri giochi, raccoglievamo i sassi colorati e nel prato giocavamo invece con la palla. Un autunno che eravamo là, con le nostre amiche, che erano figlie di contadini, abbiamo raccolto l’uva, l’abbiamo pigiata e colata. Poi con la farina abbiamo fatto il sugo, lo abbiamo cotto in un pentolino, mettendo 3 o 4 pezzettini di legna per fare un fuocherello, e lo abbiamo mangiato tutti lì nel prato. Era bellissimo: avevo 10/12 anni.
Mia nonna aveva tre oche che ci servivano con le loro uova da cenare alla sera, perché nei campi intorno c’erano i riccioni e con un uovo di oca, che era grande così, si cenava.
A Rivaltella, c’era un comando tedesco, i militari delle SS andavano a razziare da tutti i contadini tutto quello che avevano. Spesso prendevano le galline per fare il brodo, le uccidevano, le spennavano poi, fatto il brodo, buttavano la gallina e così i contadini riuscivano a recuperare la loro gallina.
Mia zia Stefania, che era la sorella più giovane di mia mamma, con altre amiche andava a Ferrara per prendere il sale. Il sale serviva per essere scambiato con i contadini della nostra montagna con la farina. Andavano fino a Ferrara in bicicletta, tornavano con il sale, andavano su in montagna e a volte andava con loro anche mia mamma, sempre in bicicletta.
Durante la guerra un mio zio era in Germania, prigioniero, poiché era stato soldato in Jugoslavia, dalla Jugoslavia li prendevano e li portavano in Germania. Chi poteva mandava pacchi ai prigionieri: pacchi con delle gallette, del pane secco, delle cose che potessero durare. Una volta li riceveva uno, una volta li riceveva l’altro, e quando lo avevano lo dividevano. Una sera, raccontava sempre mio zio, tornavano dal lavoro, perché allora erano ai lavori forzati, lavoravano per le industrie tedesche, quelli che erano validi, che erano giovani, una sera tornarono nel loro capannone dove dormivano e trovarono tutto il pane mangiato dai topi. Non rimase loro che mangiare le lacrime, poiché si misero a piangere tutti e non gli rimasero che le lacrime da mangiare. A volte, mentre tornavano dal campo di lavoro raccoglievano le bucce di patate, e ricevevano spesso le offese dai ragazzi tedeschi, dai bambini che lungo la strada li offendevano, sputavano loro addosso, dicevano che erano traditori .
Poi dopo il ’45 ritornò a casa a piedi, era magro, magro. Una volta a casa ha ricominciato a mangiare, poi andò impiegato in Provincia, perché allora a quelli che ritornavano dalla guerra, garantivano un posto di lavoro.